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venerdì 17 maggio 2019

Distruzione degli Antichi Germoplasmi e Rivoluzione Verde


Convegno Semi e Frutti Antichi
Rieti, 11 aprile 2019

Distruzione degli Antichi Germoplasmi e Rivoluzione Verde
Chiara Madaro
“Per quanto riguarda il nome, si chiama democrazia; per quanto riguarda l’amministrazione, funziona nell’ottica degli interessi di molti, non di pochi”
Tucidide, ‘Orazione funebre di Pericle’

Abstract
La scomparsa degli antichi germoplasmi è un problema riconosciuto a livello globale e solleva questioni riguardanti il diritto di un popolo alla Sovranità.
Il nesso tra alimentazione e Sovranità fu posto per la prima volta nel 1996 durante il World Food Summit. Le politiche sviluppate da allora a favore dell’agricoltura si sono dimostrate fallimentari. La Terra in quanto Bene Comune pare ancora un miraggio. Così come il diritto dei popoli ad un’alimentazione adeguata e accessibile a tutti.
La previsione secondo cui il dimezzamento degli impiegati nel settore agricolo avrebbe garantito ammodernamento in agricoltura e aumentato i guadagni al settore, ha provocato spesso un aumento dei prezzi al consumatore, vantaggi per pochi grossi latifondisti e il controllo delle grandi lobby sulla produzione dei Paesi che hanno lasciato spazio alla Rivoluzione Verde. Importanti le responsabilità di FMI e BM su cui pende la critica di economisti del calibro di Stiglitz.
Il nesso tra rimborso del debito sovrano e aggiustamenti strutturali applicati all’agricoltura, le politiche a favore delle monocolture destinati all’esportazione pongono una questione di democrazia e legittimità rispetto al diritto fondamentale all’alimentazione e alla salute.
In Italia il problema inizia nel 1966 quando si chiudono i trattati UE sulle politiche dei prezzi e dei mercati e si distingue tra cultivar ‘raccomandate’ e ‘fuorilegge’ a detrimento di prodotti mediterranei trainanti.
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Detenere il controllo sul petrolio significa controllare le Nazioni. Ma se l’obiettivo consiste nel controllare i popoli, allora è fondamentale intervenire sugli alimenti.
Lo osservava ancora negli anni 70 Henry Kissinger, al tempo consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
A distanza di qualche decennio l’attivista e scienziata Vandana Shiva parla del seme come del primo anello della catena alimentare: lasciare il controllo dei semi alle imprese transnazionali private dell’agrofarmaco industria, determina una significativa cessione di sovranità in quanto la capacità produttiva di uno Stato diventa dipendente da poche imprese transnazionali private.
Il tema della sovranità in abbinamento a quello dell’agricoltura è stato sollevato per la prima volta nel 1996 a Roma, durante il World Food Summit, dalla Via Campesina, organizzazione rurale che nasce in Sudamerica e oggi vanta ramificazioni anche in Europa. Fu quello il contesto in cui si denunciò la presenza di reticoli monopolistici che operavano a livello globale in maniera tale da impedire l’accesso ad un’alimentazione appropriata ed economicamente sostenibile.
Sotto la lente anche la meccanizzazione e l’eradicazione della cultura smantellamento dei rapporti sociali in agricoltura, degli antichi metodi attraverso cui si tramandano le conoscenze[1].
Non è un caso che sia stata proprio un’organizzazione rurale di un grande Paese, in cui vi è immensa disponibilità di terre agricole fertili, ad aver avvertito prima di altri il rischio che l’abbraccio della Rivoluzione Verde avrebbe comportato: perdita di sovranità, dunque un problema di sicurezza nazionale ma anche prezzi troppo alti proprio per quei popoli che lavorano la terra e producono alimenti.
Le ragioni, ça va sans dire, risiedono nelle politiche orientate alla monocoltura intensiva ed estensiva e alle esportazioni penalizzando la varietà ortofrutticola per il consumo interno.
Il contesto geopolitico in cui tutto avviene è ben delineato dallo storico e analista Giovanni Arrighi, il quale descrive quelli che definisce ‘cicli sistemici di accumulazione’, veri e propri cicli egemonici che si ripetono storicamente e geometricamente.
Tra questi, tuttavia, l’ultimo presenta delle caratteristiche che lo differenziano rispetto ai precedenti. Il ciclo statunitense, emerso nel corso del 19° secolo, ha visto la nascita di nuovi, inediti, attori sulla scena economica mondiale: le imprese multinazionali private, capaci di smuovere capitali di gran lunga superiori rispetto a quelli degli stessi Stati e, dunque, in grado di orientarne le scelte politiche.
Indicativo, in tal senso, il percorso senza ostacoli del mega-merger Bayer/Monsanto, la fusione tra i due colossi tedesco e statunitense orientati rispettivamente sui settori farmaceutico-pesticida e pesticida-ingegneria genetica. Un’operazione miliardaria senza precedenti che ha dissipato ogni dubbio dell’antitrust sotto la spinta della parallela fusione in atto tra Chem China, Sino Chem e la svizzera Syngenta.
Operazioni, che oltre ad avere un valore strettamente borsistico e finanziario, investono direttamente il settore geopolitico e muovono in totale cifre che si aggirano intorno ai 250 miliardi di $. Una enormità se si pensa che, al momento in cui avveniva la fusione, la Germania, lo Stato europeo finanziariamente più forte in Europa, registra un Pil pari a 3.363.446,82$, il Brasile, stella sudamericana, di 1.774, 724.82$ e gli Stati Uniti, il Paese che registra il Pil mondiale maggiore, di 18.036.648.00$[2].
A fronte di questa situazione, il tema della distruzione degli antichi germoplasmi e della dipendenza della produzione agroalimentare degli Stati da un manipolo di imprese transnazionali private, è diventato preoccupante a livello globale. L’appello della Via Campesina sulla necessità di lavorare in rete proteggendo chi lavora la terra e detiene antichi saperi legati alle produzioni e alle caratteristiche climatiche e ambientali, è ancora attuale.
Così come è attuale il dovere etico di chi ci governa di tornare al cuore delle politiche alimentari ponendo al di sopra delle logiche neoliberiste dei mercati i diritti dei popoli e dei lavoratori. 
Imporre ad un Paese politiche neoliberiste in agricoltura significa abbandonare quel paese a dinamiche che conducono direttamente all’ecocidio e al genocidio[3].
Non solo una questione ecologica, dunque. 
Saraà interessante destrutturare alcuni elementi che caratterizzano le politiche agricole degli ultimi decenni e che affondano le proprie radici anche in un  contesto nazionale e comunitario.
La perdita di varietà molteplici tra le cultivar non ha, infatti, nulla di casuale o naturale. Una forte spinta all’impoverimento della varietà biologica delle specie agroalimentari è stata attribuita dalla cosiddetta Rivoluzione Verde, quel percorso di industrializzazione e finanziarizzazione del settore agricolo che, come precedentemente accennato, nei paesi megadiversi, ha già ha posto in essere la fondamentale questione della Sovranità e su cui si discute in contesti ufficiali[4].
Un tema conosciuto anche alle nostre latitudini. Secondo alcuni analisti la crisi del settore agricolo in Italia inizia nel 1966, quando si chiudono i negoziati sulle politiche dei prezzi e dei mercati. Un nodo importante è consistito nel fatto che alcuni prodotti mediterranei furono considerati scarsamente importanti per l'economia dell'UE. A parte il riso, che in Italia gioca un ruolo economicamente marginale, iniziarono a rimanere gravemente colpiti i settori vitivinicolo, ortofrutticolo, tabacco e olio d'oliva che, invece, avevano un ruolo trainante. L'Italia in particolare era al primo posto nella produzione di questi prodotti.
Gli accordi prevedevano: 
- creazione di organizzazioni di produttori per regolare i mercati dei prodotti agricoli
- definizione di un prezzo base per ogni prodotto e dichiarare lo stato di 'crisi grave' nel caso in cui i prezzi di mercato fossero scesi sotto quelli d'acquisto, sempre fissati dalla Comunità
- sostegno del mercato nazionale
- concessione di 'restituzioni'  nel mercato delle esportazioni in caso di dumping, cioè esportazione a prezzi molto più bassi di quelli normali (che è quanto accade oggi con vino e olio d'oliva, ad esempio)
- accordi su zucchero latte carni bovine riso e olio d'oliva
In questo contesto normativo e regolatorio emerse un ‘nodo’ italiano o mediterraneo. La maggior parte dei prodotti agricoli italiani vengono, infatti, catalogati come ‘comuni’ mentre la CEE decide di impegnarsi a tutelare maggiormente quei prodotti – non italiani – ritenuti, invece, ‘pregiati’.
Per quanto riguarda il tabacco, l’Italia, insieme alla Francia, controllavano ancora fino agli anni ‘70 l’88% della produzione comunitaria. Molto importante anche il settore vinicolo: si pensi che la CEE deteneva il 50% della produzione mondiale di vino negli anni ‘60 e, anche qui, Italia e Francia facevano la parte del leone.
Ma le politiche comunitarie finirono per penalizzare il nostro Paese a vantaggio dei cugini d’oltralpe anche attraverso l’introduzione di un ‘catasto’ delle specie vitivinicole. Un sistema molto lontano da quello italiano, sprovvisto di catasto, per cui molte cultivar e produzioni risultavano, praticamente, sconosciute, dunque inesistenti o ininfluenti commercialmente. In un contesto negoziale, l’Italia, che non aveva recepito per tempo le direttive comunitarie indirizzate alla qualità del mercato, chiedeva ora libera circolazione e produzione dei vini, in ragione del fatto che l’UE non fosse autosufficiente. Tuttavia si decise di stabilire una separazione netta tra vigneti ‘raccomandati’ e ‘fuorilegge’ con il divieto di impiantare questi ultimi a partire dal settembre del 1971. E l’Italia, che, come già detto, non si preparò per tempo a catalogare e inventariare le numerose cultivar che da nord a sud rappresentavano un importante fattore della società agricola e dell’economia del Paese, rimase fortemente penalizzata.
Un ulteriore elemento di criticità era presente nel settore ortofrutticolo a causa di tariffe preferenziali nei confronti di altri paesi mediterranei concorrenti.
Già in quegli anni alcuni comparti nel settore agroalimentare iniziarono a sentire che qualcosa non andava. Per la ‘crisi delle arance’, ad esempio, la UE rispondeva negativamente alle nostre richieste di revisione dei trattati dichiarandosi non responsabile della decisione dei singoli Stati di immettere sul mercato prodotti di ‘seconda categoria’ e offre, anzi, premi per l’estirpazione di varietà non consone o eccedenti.
Il conseguente drastico e drammatico crollo dei prezzi per l’agricoltura italiana ebbe un concorso di colpe: da un lato le inadempienze italiane (frutto in parte di incapacità, in parte di mancanza di consapevolezza della straordinaria varietà, ricchezza e importanza del nostro patrimonio agroalimentare), dall’altro della rigidità del sistema normativo e regolatorio CEE. Una rigidità che ha portato crisi a catena.
A questo punto, già nel 1968 venne pubblicato il cosiddetto Memorandum Mansholt, dal nome di chi lo redasse, Sicco Mansholt, successivamente presidente della Commissione Europea.
Il Memorandum rilevava le gravi carenze delle politiche sui prezzi e sui mercati varati nella Comunità. Il castello normativo appena avviato aveva già mostrato segnali preoccupanti che andavano in controtendenza rispetto ai risultati attesi. Dopo aver analizzato il divario esistente tra la realtà delle piccole famiglie di agricoltori e produttori e gli ambiziosi obiettivi di sistematizzare e ingabbiare secondo tempistiche certe un settore fonte di continue sorprese e mutevolezza anche a causa delle variabili ambientali, sociali e culturali, Mansholt pronosticò un ulteriore impoverimento di decine di migliaia di piccoli lavoratori terrieri a vantaggio di pochi grossi imprenditori. In particolare individuò come maggiormente esposti a situazioni di sovrapproduzione il settore cerealicolo, dei bovini da latte e dello zucchero.
Lo studio di Mansholdt notò che prima della PAC, nel 1960, i paesi che avevano avviato la Comunità (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo) avevano speso 500 milioni di ECU per sostenere i prezzi agricoli. A distanza di 9 anni, nel 1969, la spesa superava, ormai, i 2 miliardi e mezzo. Il Memorandum suggeriva, perciò, maggiore elasticità e capacità di tener conto della direzione della domanda e della naturale evoluzione dei prezzi e dei mercati. Il rischio sarebbe stato, appunto, un pericoloso e non più recuperabile effetto domino su tutto l’intero settore agroalimentare.
Allo scopo di prevenire la disfatta pensò, quindi, di traghettare le aziende verso un ammodernamento e ingrandimento preferibilmente mantenendo le strutture esistenti e promuovendo sistemi associativi. Molto importante era considerato l’aumento degli occupati nel settore agricolo con una stima di 80mila nuovi posti all’anno, con la prospettiva di risanare le crepe in atto in un decennio.
Il Piano venne duramente osteggiato. Si favorì, invece, il prepensionamento degli agricoltori e la concentrazione della proprietà terriera attraverso la cessione di quelle terre alle aziende che offrivano maggiori garanzie di ammodernamento.
Riguardo la dimensione del ‘fattore umano’ in agricoltura, si andò in direzione totalmente opposta rispetto a quella suggerita dal Piano.
Tabella - Numero delle aziende che occupano operai agricoli per regione - Confronto 2007-2016

Fonte: Inps – Osservatorio statistico sul Mondo agricolo[5]

Un ulteriore obiettivo consistette, infatti, nel dimezzare il numero di persone impiegate nel settore agricolo: si passò da 10 a 5 milioni di unità in 10 anni[6]. La cifra risparmiata sarebbe stata utile all’ammodernamento delle imprese agricole.
Per quanto riguarda il nostro Paese, risultano preoccupanti i dati dell’ultimo triennio riguardo la vulnerabilità proprio delle regioni meridionali, quelle che un tempo detenevano maggiore produttività di varietà pregiate mediterranee, con un indebolimento delle imprese e un leggero incremento dei coltivatori diretti.

La finanziarizzazione del settore agricolo
Il ruolo della finanziarizzazione delle materie prime anche agricole nell’altalena dei prezzi è stato riconosciuto anche dalla BM. Un po’ ovunque nel mondo,  la tendenza all'ammodernamento del settore agricolo ha favorito l'inserimento delle grandi lobby transnazionali nel tessuto produttivo dei Paesi creando le condizioni affinchè il capitale generato sui territori locali finisse per concentrarsi in poche mani. Fattore non secondario è anche costituito dalla riduzione delle specie e delle cultivar coltivate.
Si è già fatto menzione all’esistenza di cultivar ‘raccomandate’ e ‘fuorilegge’ nella CEE. Negli anni ’70 si creò un vero e proprio registro e si stabilì il divieto di impianto per quelle proibite. Emblematico un episodio occorso nel 2012, quando la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dichiara illegali alcuni semi di grani antichi non iscritti nel catalogo ufficiale UE. La vicenda ebbe inizio in seguito alla denuncia dell’impresa francese Graines Baumaux ai danni della Ong transalpina Kokopelli, accusata di vendere semi antichi della varietà Kokopelli 461, non ammessa nei cataloghi UE dal 1998.
Dopo una serie di ripensamenti, la Corte di Giustizia da ragione alla Graines Baumaux e condanna Kokopelli al pagamento di una multa di 100mila euro. La giustificazione risiedeva nel fatto che le specie bandite dalle politiche agricole comunitarie, non erano in grado di soddisfare quei parametri necessari ad aumentare la produttività agricola dell’eurozona. Anzi: risultavano dannose.     
Intanto le statistiche e le cronache degli ultimi decenni hanno attribuito ragione alle previsioni critiche che, già negli anni 80 mostravano segnali di sofferenza da parte del settore agroalimentare. Eppure si è scelto di continuare ad appiattirsi su quelle regole, sulla criminalizzazione e  distruzione degli antichi germoplasmi. Secondo l’attivista e giornalista Colin Todhunter; “Rimanendo in silenzio o dimostrando ostinata ignoranza sulle dinamiche e le ingiustizie dell’economia politica del cibo e dell’agricoltura, se ne approvano tacitamente le conseguenze. Cibo e agricoltura – continua - si sono sposate con strutture di potere che hanno creato eccedenze alimentari e aree di deficit alimentare e hanno ristrutturato l’agricoltura indigena in tutto il mondo legandola ad un sistema internazionale di commercio basato sulla monocoltura orientata all’esportazione”[7].
Di fatto, si viene a determinare la circostanza secondo la quale la produzione nel mercato internazionale viene manipolata e condotta in direzione di volatili logiche finanziarie piuttosto che verso le effettive necessità dei popoli. Condizione indispensabile all’operazione risulta l’indebitamento verso le istituzioni finanziarie globali.
Di fatto, ci si è avviati anche in Europa verso la finanziarizzazione del settore agricolo attraverso i PAS, Programmi di Aggiustamento Strutturale, aggressivi interventi di risanamento economico che prevedono riduzione dell’inflazione, aumento delle esportazioni, risanamento della bilancia commerciale. Gli strumenti indicati sono le privatizzazioni, l’aumento dei tassi, l’alleggerimento delle leggi fiscali, l’abbassamento delle tariffe doganali, l’eliminazione del controllo sui flussi di capitale straniero, la drastica riduzione delle spese sociali, con una ricaduta estremamente negativa sulle popolazioni locali e sui servizi primari costituzionalmente garantiti.
I PAS richiedono un cambiamento delle politiche e, tradizionalmente, sono stati caldeggiati dal FMI e da BM nei paesi in via di sviluppo in allineamento con il Washington Consensus, un pacchetto di 10 regole ‘auree’ pensate per rimettere in carreggiata paesi in difficoltà rispetto agli obiettivi globali.
Questi programmi prevedono cambiamenti interni (privatizzazioni e deregolamentazioni) ed esterni (riduzione delle barriere commerciali). Chi fallisce, viene sottoposto a severe discipline fiscali.
Secondo gli analisti più critici, questo equivale ad un ricatto nei confronti dei paesi poveri che vengono, praticamente, costretti a finire nella morsa dei PAS ma poi non hanno molte occasioni per riprendersi dalla spirale dei prestiti. Su questo tema è intervenuta anche la sociologa Saskia Sassen, denunciando come il sistema in atto peggiori le condizioni dei più deboli espellendoli dal mondo produttivo e marginalizzandoli drammaticamente.
Una delle critiche più comuni al sistema riguarda il mancato coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo nel PAS per cui sono stati redatti i Poverty Reduction Strategy Papers (PRSPs). Tuttavia non sono  mancate le critiche nemmeno a questo ulteriore meccanismo, accusato di essere ancora troppo legato agli interessi dei principali gruppi finanziari internazionali e dei paesi prestatori[8].
Il meccanismo  è ben spiegato dal presidente burkinabe Thomas Sankara negli anni 70[9];  si presta e si continua a prestare anche a quei paesi che hanno problemi nella bilancia dei pagamenti privilegiando la realizzazione di particolari progetti di sviluppo, ad esempio infrastrutture, o, nel caso dell’agricoltura, ammodernamento indirizzato, appunto all’ingegnerizzazione delle sementi o ai fitofarmaci di sintesi, la Rivoluzione Verde, appunto..
Un sistema incriminato dallo stesso Stiglitz in quanto conduce al fallimento imprese sane e, financo, interi settori industriali.
Deleterio in particolare il nesso tra il rimborso del debito sovrano e l’aggiustamento strutturale dell’agricoltura regionale: per gli agricoltori si traduce in una spirale crescente di costi. I contadini diventano dipendenti da semi e tecnologie le cui royalty appartengono a imprese private di maggior calibro, si distrugge il principio stesso dell’autosufficienza alimentare.
Gli stessi sussidi costituiscono una trappola per i contadini e per gli Stati in quanto elargiti in forma di prestito difficilmente rimborsabile. Di fatto, che il debito venga interamente ripagato, non conviene al creditore, come non conviene che si scelga di non pagare affatto. L’obiettivo consiste nel mantenere in una costante condizione debitoria alcuni paesi target.
Nel nostro Paese il decreto 24.01.2012 n.1 recante ’Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività’ (G.U. 24.01.2012 n.19) e altrimenti conosciuto come ‘decreto liberalizzazioni’, all’Art.66 regola la dismissione dei terreni demaniali e a vocazione agricola e specifica: “6. Per i terreni ricadenti all'interno di aree protette (…) l'Agenzia del demanio acquisisce preventivamente l'assenso alla vendita o alla cessione in affitto da parte degli enti gestori delle medesime aree” e che: “9. Le risorse derivanti dalle operazioni di dismissione di cui ai commi precedenti al netto dei costi sostenuti dall'Agenzia del demanio per le attività svolte, sono destinate alla riduzione del debito pubblico. Gli enti territoriali destinano le predette risorse alla riduzione del proprio debito e, in assenza del debito o per la parte eventualmente eccedente al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato”[10].
In sostanza, ogni anno il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali adotta un decreto allo scopo di individuare terreni agricoli o a vocazione agricola che siano di proprietà dello Stato o enti e che potranno essere venduti senza bando se il loro valore è sotto i 100mila euro. Il ricavato dovrà servire a riempire il debito pubblico.
Elementi già contenuti nella Legge di bilancio 12 novembre 2011 n.183, evoluzione del Decreto Salva Italia 201/11 su ‘Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei beni pubblici’
Quanto sta accadendo dimostra che oggi il patrimonio naturale e ambientale è considerato uno spazio di speculazione, e sta decisamente perdendo la sua connotazione di bene comune con il suo carico di conoscenze e relazioni.
Significativo anche il DL 85/2010 il quale all’Art. 5 stabilisce che il demanio marittimo e quelli appartenenti al demanio idrico che siano di proprietà dello Stato, possono, però, essere venduti e chi acquisterà, potrà disporre liberamente di coste, fiumi, laghi e sorgenti.
Si viene, quindi, a verificare il caso pocanzi paventato: quello del nesso che si stabilisce tra rimborso del debito sovrano e aggiustamento strutturale delle agricolture regionali, causa di drammatiche e infinite spirali debitorie.
L’urgenza di riprendere il controllo sulle produzioni agricole arriva da più parti così come il nesso tra etica, diritti e mercato in tempi di forte aumento dei prezzi delle materie prime agricole che contribuiscono al peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni maggiormente vulnerabili.
In particolare il prezzo del grano è aumentato del 95% durante la seconda metà del 2010. Si stabilisce, così un nesso inestricabile tra la crisi alimentare mondiale e la speculazione finanziaria sui prodotti agricoli a livello mondiale. “L’ampiezza delle variazioni dei prezzi in così breve tempo suggerisce di per sé che tali movimenti non possono essere stati originati da movimenti dell’offerta o della domanda – ci racconta uno studio di economia - specialmente dal momento che nel mercato mondiale gli effetti della stagionalità, in una particolare regione, sono controbilanciati dall’offerta nelle altre regioni. (…) Invece – ipotizza ancora questo interessante studio – si può plausibilmente ritenere che la speculazione finanziaria e, in particolare, le attività degli investitori dei futures sulle materie prime non regolamentate siano state il principale fattore soggiacente al rapido incremento dei prezzi di molte materie prime, inclusi i prodotti agricoli negli ultimi anni”[11].
I futures sono, praticamente, un accordo di mercato  riguardante la produzione di una commodity, che in campo agricolo è un prodotto agricolo, appunto (caffè, cotone ecc.). Quindi si stipula un contratto in cui si concorda  un prezzo di vendita riguardante una futura produzione. Si tratta di un modo che i produttori possono utilizzare per assicurarsi una certa stabilità futura nei guadagni. Gli intermediari attraverso un accordo future possono acquistare dei prodotti agricoli dagli agricoltori con consegna futura e ad un prezzo prefissato. Ciò protegge gli agricoltori dalla fluttuazione dei prezzi che può essere dovuta, ad esempio, ad una catastrofe ambientale. Ma gli intermediari si assumono il rischio di quanto potrebbe accadere in cambio di una ricompensa che verrà incassata indipendentemente dalle sollecitazioni verso l’alto o il basso cui saranno soggette le materie prime. Il ruolo degli intermediari è fondamentale in questo ragionamento perché possono anche speculare sui profitti. La deregolamentazione del sistema finanziario globale ha certamente favorito questo sistema. Interessante anche il nesso rilevato da alcuni economisti tra le oscillazioni del prezzo del petrolio, che nella seconda metà del 2010 ha superato la soglia psicologica dei 100 dollari al barile, e il prezzo del cibo indipendentemente dall’offerta e dalla domanda dei prodotti agricoli con ricadute negative o estremamente negative sui coltivatori ma anche sui consumatori. Ne è esempio l’India, dove i prezzi del cibo salgono in un contesto in cui la popolazione è, sostanzialmente, malnutrita[12].
Esistono dolorosi esempi che ben raccontano le conseguenze di questo sistema portato a maturazione. La morte di 300 mila contadini indiani suicidi negli ultimi 20 anni e il muro di silenzio erto intorno ai responsabili raccontano di un’ecatombe che poco si abbina al tema della giustizia sociale e della democrazia.
In India 12 mila piccoli coltivatori all’anno si suicidano in seguito alla monopolizzazione del settore cotoniero avviato da Monsanto con l’introduzione del cotone transgenico BT nel 2002. Un vero e proprio genocidio di stampo finanziario che non ha precedenti e il cui nesso con l’agribusiness è stato denunciato anche nel parlamento indiano.
Il Rapporto Acharya dal nome dell’autore Basudeb Acharya, capo del Comitato parlamentare permanente per l'agricoltura del parlamento nazionale indiano, è altrimenti  noto con il titolo  “Cultivation of Genetically Modified Food Crops – Prospects and Effects”.  Il documento fa il punto della situazione agricola indiana dopo 4 anni di ricerca durante i quali i componenti del Comitato hanno intervistato tutti gli stakeholders.  La Commissione stabilì che l’introduzione del cotone BT non ha beneficiato gli agricoltori: “Al contrario, essendo una pratica di agricoltura ad alta intensità di capitale, gli investimenti che gli agricoltori hanno dovuto sostenere sono aumentati, esponendoli, in tal modo, a rischi molto maggiori a causa del massiccio indebitamento che la grande maggioranza di loro non può permettersi. Come risultato, dopo l'euforia di alcuni anni iniziali, la coltivazione del cotone Bt ha solo aggravato la miseria dei piccoli agricoltori marginali che rappresentano oltre il 70% delle coltivazioni in India"[14].
Osservazioni confermate da paralleli e autorevoli studi condotti nei grandi paesi sudamericani[15] e africani[16] e dimostrano la rapace follia del sistema produttivo vigente.
Un sistema il cui tema caratterizzante è costituito dal monopolio che Monsanto detiene rispetto alla produzione delle colture.
Gli agricoltori sono costretti a pagare a Monsanto – dunque ad una corporazione transnazionale privata – le royalty sulla produzione, i semi transgenici che producono piante sterili, i pesticidi che controllano gli insetti ‘nocivi’.
Naturalmente, essendo in presenza di un monopolio ‘corsaro’, Monsanto può decidere il prezzo dei prodotti che vende, prodotti di cui gli agricoltori hanno sempre più necessità. Si è riscontrato, infatti, che il cotone BT sia esposto ad un maggior numero di insetti nocivi e malattie rispetto al normale cotone a causa di una maggiore suscettibilità contratta rispetto agli insetti succhiatori.
E’ quindi possibile affermare che le promesse propagandate dalla Rivoluzione Verde non siano state mantenute, i guadagni siano stati realizzati solo da Monsanto e le conseguenze di un approccio neoliberale all’agricoltura abbiano avuto ricadute economiche dirette (contadini) e indirette (aiuti statali) che hanno peggiorato sia le condizioni di vita e salute degli agricoltori e delle loro famiglie, sia quelle dello Stato, in una spirale crescente di continui esborsi.
E’ ormai evidente che i mercati internazionali delle materie prime assumono sempre più le caratteristiche di mercati finanziari e sono pertanto soggetti ad asimmetrie informative e alle relative tendenze a essere diretti da un piccolo gruppo di grandi giocatori[17].
Secondo il governo indiano esiste un rapporto inversamente proporzionale tra i profitti di Monsanto e i crescenti debiti contratti dai contadini. Si calcola che il 75% del debito agrario sia da imputare al valore sempre maggiore degli acquisti cui i contadini sono costretti[18].
Come si cade in questa trappola? Il meccanismo viene disarticolato dalla Prof.ssa Shiva la quale punta l’indice contro le strutture finanziarie sovranazionali e afferma:
 “L’ingresso di Monsanto nel settore dei semi indiano è stato reso possibile da una Politica sui Semi risalente al 1988 imposta dalla Banca Mondiale, che richiedeva al governo indiano di deregolamentare il settore dei semi. Cinque cose sono cambiate con l’ingresso di Monsanto: Primo, le compagnie indiane sono state inserite in accordi di joint ventures e licence (…). Secondo, i semi che erano stati la comune risorsa dei coltivatori, sono diventati ‘proprietà intellettuale’ di Monsanto che ha iniziato a collezionare royalty aumentando, tra l’altro, il costo dei semi. Terzo: i normali semi di cotone impollinati, furono sostituiti da ibridi, compresi gli ibridi OGM. Una risorsa rinnovabile è diventata un articolo brevettato non rinnovabile. Quarto, il cotone che precedentemente veniva coltivato insieme a coltivazioni destinate all’alimentazione, ora cresce in forma di monocoltura, determinando una maggiore vulnerabilità agli insetti nocivi, alle malattie, alla siccità e al fallimento delle coltivazioni. Quinto, Monsanto ha iniziato a sovvertire il processo regolatorio indiano iniziando ad usare risorse pubbliche allo scopo di spingere nella cosiddetta partnership pubblico/privato (PPP) i suoi semi OGM ibridi non rinnovabili”[19].
Fatti che, come si diceva, sollevano questioni di giustizia sociale ma anche di sovranità.
Eppure l’alternativa esiste, è l’agroecologia. I paesi che hanno scelto di abbracciare questa tipologia produttiva hanno visto in breve dei miglioramenti che ricadono in tutta la catena produttiva, i benefici: autosufficienza, localizzazione, sovranità alimentare, ambiente salubre,
maggiore resilienza al clima, creazione di posti di lavoro, maggiori rendimenti per gli agricoltori, migliore qualità del suolo[20].






[1] Forum Mondiale sulla Sovranità Alimentare, Villaggio di Nyéléni, Mali, 23-27 Febbraio 2007. Il tema della Sovranità alimentare è stato posto nel 1996 a Roma dalla Via Campesina, organizzazione rurale molto attiva in Brasile. http://www.nyeleni.org/
[2] http://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.CD
[4] CONSEA, Conselho Nacional de Segurança Alimentar e Nutricional, “Relatório Final. Mesa de Controvérsias sobre Transgênicos”, Brasília, Presidência da República, 2014.
[6] Morea Leonardo, ‘Le colture mediterranee nella prospettiva europea del 1992’,  pg. 33, Cacucci editore, Bari 1990
[7] Colin Todhunter,  https://www.globalresearch.ca/approaching-development-gmo-propaganda-neoliberalism-localisation-agroecology/5660332?utm_campaign=magnet&utm_source=article_page&utm_medium=related_articles
Tra i paesi prestatori di FMI e BM spiccano nell’ordine Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Canada. Questi paesi intervengono nei progetti attraverso un sistema di voti proporzionale all’importanza finanziaria del Paese.
[11] [11] Jayati Ghosh, “Implicazioni della regolazione dei mercati dei derivati sulle materie prime negli USA e nell’Unione Europea”, in: Moneta e Credito, vol. 64 n.256 (2011), 297-318

[12] Jayati Ghosh, “Implicazioni della regolazione dei mercati dei derivati sulle materie prime negli USA e nell’Unione Europea”, in: Moneta e Credito, vol. 64 n.256 (2011), 297-318
[17] Jayati Ghosh, “Implicazioni della regolazione dei mercati dei derivati sulle materie prime negli USA e nell’Unione Europea”, in: Moneta e Credito, vol. 64 n.256 (2011), 297-318
[19] idem

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