Convegno
Semi e Frutti Antichi
Rieti,
11 aprile 2019
Distruzione
degli Antichi Germoplasmi e Rivoluzione Verde
Chiara Madaro
“Per quanto riguarda il
nome, si chiama democrazia; per quanto riguarda l’amministrazione, funziona
nell’ottica degli interessi di molti, non di pochi”
Tucidide,
‘Orazione funebre di Pericle’
Abstract
La
scomparsa degli antichi germoplasmi è un problema riconosciuto a livello
globale e solleva questioni riguardanti il diritto di un popolo alla Sovranità.
Il nesso
tra alimentazione e Sovranità fu posto per la prima volta nel 1996 durante il
World Food Summit. Le politiche sviluppate da allora a favore dell’agricoltura
si sono dimostrate fallimentari. La Terra in quanto Bene Comune pare ancora un
miraggio. Così come il diritto dei popoli ad un’alimentazione adeguata e
accessibile a tutti.
La
previsione secondo cui il dimezzamento degli impiegati nel settore agricolo
avrebbe garantito ammodernamento in agricoltura e aumentato i guadagni al
settore, ha provocato spesso un aumento dei prezzi al consumatore, vantaggi per
pochi grossi latifondisti e il controllo delle grandi lobby sulla produzione
dei Paesi che hanno lasciato spazio alla Rivoluzione Verde. Importanti le
responsabilità di FMI e BM su cui pende la critica di economisti del calibro di
Stiglitz.
Il nesso
tra rimborso del debito sovrano e aggiustamenti strutturali applicati
all’agricoltura, le politiche a favore delle monocolture destinati
all’esportazione pongono una questione di democrazia e legittimità rispetto al
diritto fondamentale all’alimentazione e alla salute.
In Italia
il problema inizia nel 1966 quando si chiudono i trattati UE sulle politiche
dei prezzi e dei mercati e si distingue tra cultivar ‘raccomandate’ e
‘fuorilegge’ a detrimento di prodotti mediterranei trainanti.
*******
Detenere il controllo sul petrolio
significa controllare le Nazioni. Ma se l’obiettivo consiste nel controllare i
popoli, allora è fondamentale intervenire sugli alimenti.
Lo osservava ancora negli anni 70 Henry
Kissinger, al tempo consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
A distanza di qualche decennio l’attivista
e scienziata Vandana Shiva parla del seme come del primo anello della catena
alimentare: lasciare il controllo dei semi alle imprese transnazionali private
dell’agrofarmaco industria, determina una significativa cessione di sovranità
in quanto la capacità produttiva di uno Stato diventa dipendente da poche
imprese transnazionali private.
Il tema della sovranità in abbinamento
a quello dell’agricoltura è stato sollevato per la prima volta nel 1996 a Roma,
durante il World Food Summit, dalla Via Campesina, organizzazione rurale che
nasce in Sudamerica e oggi vanta ramificazioni anche in Europa. Fu quello il
contesto in cui si denunciò la presenza di reticoli monopolistici che operavano
a livello globale in maniera tale da impedire l’accesso ad un’alimentazione
appropriata ed economicamente sostenibile.
Sotto la lente anche la meccanizzazione
e l’eradicazione della cultura smantellamento dei rapporti sociali in
agricoltura, degli antichi metodi attraverso cui si tramandano le conoscenze[1].
Non è un caso che sia stata proprio un’organizzazione
rurale di un grande Paese, in cui vi è immensa disponibilità di terre agricole
fertili, ad aver avvertito prima di altri il rischio che l’abbraccio della
Rivoluzione Verde avrebbe comportato: perdita di sovranità, dunque un problema
di sicurezza nazionale ma anche prezzi troppo alti proprio per quei popoli che
lavorano la terra e producono alimenti.
Le ragioni, ça va sans dire, risiedono
nelle politiche orientate alla monocoltura intensiva ed estensiva e alle
esportazioni penalizzando la varietà ortofrutticola per il consumo interno.
Il contesto geopolitico in cui tutto
avviene è ben delineato dallo storico e analista Giovanni Arrighi, il quale descrive
quelli che definisce ‘cicli sistemici di accumulazione’, veri e propri cicli
egemonici che si ripetono storicamente e geometricamente.
Tra questi, tuttavia, l’ultimo presenta
delle caratteristiche che lo differenziano rispetto ai precedenti. Il ciclo
statunitense, emerso nel corso del 19° secolo, ha visto la nascita di nuovi,
inediti, attori sulla scena economica mondiale: le imprese multinazionali
private, capaci di smuovere capitali di gran lunga superiori rispetto a quelli
degli stessi Stati e, dunque, in grado di orientarne le scelte politiche.
Indicativo, in tal senso, il percorso
senza ostacoli del mega-merger Bayer/Monsanto, la fusione tra i due colossi
tedesco e statunitense orientati rispettivamente sui settori
farmaceutico-pesticida e pesticida-ingegneria genetica. Un’operazione
miliardaria senza precedenti che ha dissipato ogni dubbio dell’antitrust sotto
la spinta della parallela fusione in atto tra Chem China, Sino Chem e la
svizzera Syngenta.
Operazioni, che oltre ad avere un
valore strettamente borsistico e finanziario, investono direttamente il settore
geopolitico e muovono in totale cifre che si aggirano intorno ai 250 miliardi
di $. Una enormità se si pensa che, al momento in cui avveniva la fusione, la
Germania, lo Stato europeo finanziariamente più forte in Europa, registra un
Pil pari a 3.363.446,82$, il Brasile, stella sudamericana, di 1.774, 724.82$ e
gli Stati Uniti, il Paese che registra il Pil mondiale maggiore, di 18.036.648.00$[2].
A fronte di questa situazione, il tema
della distruzione degli antichi germoplasmi e della dipendenza della produzione
agroalimentare degli Stati da un manipolo di imprese transnazionali private, è diventato
preoccupante a livello globale. L’appello della Via Campesina sulla necessità
di lavorare in rete proteggendo chi lavora la terra e detiene antichi saperi legati
alle produzioni e alle caratteristiche climatiche e ambientali, è ancora
attuale.
Così come è attuale il dovere etico di
chi ci governa di tornare al cuore delle politiche alimentari ponendo al di
sopra delle logiche neoliberiste dei mercati i diritti dei popoli e dei
lavoratori.
Imporre ad un Paese politiche
neoliberiste in agricoltura significa abbandonare quel paese a dinamiche che
conducono direttamente all’ecocidio e al genocidio[3].
Non solo una questione ecologica,
dunque.
Saraà interessante destrutturare alcuni
elementi che caratterizzano le politiche agricole degli ultimi decenni e che
affondano le proprie radici anche in un
contesto nazionale e comunitario.
La perdita di varietà molteplici tra le
cultivar non ha, infatti, nulla di casuale o naturale. Una forte spinta
all’impoverimento della varietà biologica delle specie agroalimentari è stata attribuita
dalla cosiddetta Rivoluzione Verde, quel percorso di industrializzazione e
finanziarizzazione del settore agricolo che, come precedentemente accennato, nei
paesi megadiversi, ha già ha posto in essere la fondamentale questione della
Sovranità e su cui si discute in contesti ufficiali[4].
Un
tema conosciuto anche alle nostre latitudini. Secondo alcuni analisti la crisi
del settore agricolo in Italia inizia nel 1966, quando si chiudono i negoziati
sulle politiche dei prezzi e dei mercati. Un nodo importante è consistito nel
fatto che alcuni prodotti mediterranei furono considerati scarsamente
importanti per l'economia dell'UE. A parte il riso, che in Italia gioca un
ruolo economicamente marginale, iniziarono a rimanere gravemente colpiti i
settori vitivinicolo, ortofrutticolo, tabacco e olio d'oliva che, invece,
avevano un ruolo trainante. L'Italia in particolare era al primo posto nella
produzione di questi prodotti.
Gli
accordi prevedevano:
-
creazione di organizzazioni di produttori per regolare i mercati dei prodotti
agricoli
-
definizione di un prezzo base per ogni prodotto e dichiarare lo stato di 'crisi
grave' nel caso in cui i prezzi di mercato fossero scesi sotto quelli
d'acquisto, sempre fissati dalla Comunità
-
sostegno del mercato nazionale
-
concessione di 'restituzioni' nel mercato delle esportazioni in caso di
dumping, cioè esportazione a prezzi molto più bassi di quelli normali (che è
quanto accade oggi con vino e olio d'oliva, ad esempio)
-
accordi su zucchero latte carni bovine riso e olio d'oliva
In
questo contesto normativo e regolatorio emerse un ‘nodo’ italiano o
mediterraneo. La maggior parte dei prodotti agricoli italiani vengono, infatti,
catalogati come ‘comuni’ mentre la CEE decide di impegnarsi a tutelare
maggiormente quei prodotti – non italiani – ritenuti, invece, ‘pregiati’.
Per
quanto riguarda il tabacco, l’Italia, insieme alla Francia, controllavano
ancora fino agli anni ‘70 l’88% della produzione comunitaria. Molto importante
anche il settore vinicolo: si pensi che la CEE deteneva il 50% della produzione
mondiale di vino negli anni ‘60 e, anche qui, Italia e Francia facevano la
parte del leone.
Ma
le politiche comunitarie finirono per penalizzare il nostro Paese a vantaggio
dei cugini d’oltralpe anche attraverso l’introduzione di un ‘catasto’ delle
specie vitivinicole. Un sistema molto lontano da quello italiano, sprovvisto di
catasto, per cui molte cultivar e produzioni risultavano, praticamente, sconosciute,
dunque inesistenti o ininfluenti commercialmente. In un contesto negoziale,
l’Italia, che non aveva recepito per tempo le direttive comunitarie indirizzate
alla qualità del mercato, chiedeva ora libera circolazione e produzione dei
vini, in ragione del fatto che l’UE non fosse autosufficiente. Tuttavia si
decise di stabilire una separazione netta tra vigneti ‘raccomandati’ e ‘fuorilegge’
con il divieto di impiantare questi ultimi a partire dal settembre del 1971. E
l’Italia, che, come già detto, non si preparò per tempo a catalogare e
inventariare le numerose cultivar che da nord a sud rappresentavano un
importante fattore della società agricola e dell’economia del Paese, rimase
fortemente penalizzata.
Un
ulteriore elemento di criticità era presente nel settore ortofrutticolo a causa
di tariffe preferenziali nei confronti di altri paesi mediterranei concorrenti.
Già
in quegli anni alcuni comparti nel settore agroalimentare iniziarono a sentire
che qualcosa non andava. Per la ‘crisi delle arance’, ad esempio, la UE
rispondeva negativamente alle nostre richieste di revisione dei trattati
dichiarandosi non responsabile della decisione dei singoli Stati di immettere
sul mercato prodotti di ‘seconda categoria’ e offre, anzi, premi per
l’estirpazione di varietà non consone o eccedenti.
Il
conseguente drastico e drammatico crollo dei prezzi per l’agricoltura italiana
ebbe un concorso di colpe: da un lato le inadempienze italiane (frutto in parte
di incapacità, in parte di mancanza di consapevolezza della straordinaria
varietà, ricchezza e importanza del nostro patrimonio agroalimentare),
dall’altro della rigidità del sistema normativo e regolatorio CEE. Una rigidità
che ha portato crisi a catena.
A
questo punto, già nel 1968 venne pubblicato il cosiddetto Memorandum Mansholt,
dal nome di chi lo redasse, Sicco Mansholt, successivamente presidente della
Commissione Europea.
Il
Memorandum rilevava le gravi carenze delle politiche sui prezzi e sui mercati
varati nella Comunità. Il castello normativo appena avviato aveva già mostrato
segnali preoccupanti che andavano in controtendenza rispetto ai risultati
attesi. Dopo aver analizzato il divario esistente tra la realtà delle piccole
famiglie di agricoltori e produttori e gli ambiziosi obiettivi di
sistematizzare e ingabbiare secondo tempistiche certe un settore fonte di
continue sorprese e mutevolezza anche a causa delle variabili ambientali, sociali
e culturali, Mansholt pronosticò un ulteriore impoverimento di decine di
migliaia di piccoli lavoratori terrieri a vantaggio di pochi grossi
imprenditori. In particolare individuò come maggiormente esposti a situazioni
di sovrapproduzione il settore cerealicolo, dei bovini da latte e dello
zucchero.
Lo
studio di Mansholdt notò che prima della PAC, nel 1960, i paesi che avevano
avviato la Comunità (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo)
avevano speso 500 milioni di ECU per sostenere i prezzi agricoli. A distanza di
9 anni, nel 1969, la spesa superava, ormai, i 2 miliardi e mezzo. Il Memorandum
suggeriva, perciò, maggiore elasticità e capacità di tener conto della
direzione della domanda e della naturale evoluzione dei prezzi e dei mercati.
Il rischio sarebbe stato, appunto, un pericoloso e non più recuperabile effetto
domino su tutto l’intero settore agroalimentare.
Allo
scopo di prevenire la disfatta pensò, quindi, di traghettare le aziende verso
un ammodernamento e ingrandimento preferibilmente mantenendo le strutture
esistenti e promuovendo sistemi associativi. Molto importante era considerato
l’aumento degli occupati nel settore agricolo con una stima di 80mila nuovi
posti all’anno, con la prospettiva di risanare le crepe in atto in un decennio.
Il
Piano venne duramente osteggiato. Si favorì, invece, il prepensionamento degli
agricoltori e la concentrazione della proprietà terriera attraverso la cessione
di quelle terre alle aziende che offrivano maggiori garanzie di ammodernamento.
Riguardo
la dimensione del ‘fattore umano’ in agricoltura, si andò in direzione
totalmente opposta rispetto a quella suggerita dal Piano.
Fonte:
Inps – Osservatorio statistico sul Mondo agricolo[5]
Un
ulteriore obiettivo consistette, infatti, nel dimezzare il numero di persone
impiegate nel settore agricolo: si passò da 10 a 5 milioni di unità in 10 anni[6].
La cifra risparmiata sarebbe stata utile all’ammodernamento delle imprese
agricole.
Per
quanto riguarda il nostro Paese, risultano preoccupanti i dati dell’ultimo
triennio riguardo la vulnerabilità proprio delle regioni meridionali, quelle
che un tempo detenevano maggiore produttività di varietà pregiate mediterranee,
con un indebolimento delle imprese e un leggero incremento dei coltivatori
diretti.
La
finanziarizzazione del settore agricolo
Il
ruolo della finanziarizzazione delle materie prime anche agricole nell’altalena
dei prezzi è stato riconosciuto anche dalla BM. Un po’ ovunque nel mondo, la tendenza all'ammodernamento del settore agricolo
ha favorito l'inserimento delle grandi lobby transnazionali nel tessuto
produttivo dei Paesi creando le condizioni affinchè il capitale generato sui
territori locali finisse per concentrarsi in poche mani. Fattore non secondario
è anche costituito dalla riduzione delle specie e delle cultivar coltivate.
Si
è già fatto menzione all’esistenza di cultivar ‘raccomandate’ e ‘fuorilegge’
nella CEE. Negli anni ’70 si creò un vero e proprio registro e si stabilì il divieto
di impianto per quelle proibite. Emblematico un episodio occorso nel 2012,
quando la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dichiara illegali alcuni semi
di grani antichi non iscritti nel catalogo ufficiale UE. La vicenda ebbe inizio
in seguito alla denuncia dell’impresa francese Graines Baumaux ai danni della
Ong transalpina Kokopelli, accusata di vendere semi antichi della varietà
Kokopelli 461, non ammessa nei cataloghi UE dal 1998.
Dopo
una serie di ripensamenti, la Corte di Giustizia da ragione alla Graines
Baumaux e condanna Kokopelli al pagamento di una multa di 100mila euro. La
giustificazione risiedeva nel fatto che le specie bandite dalle politiche
agricole comunitarie, non erano in grado di soddisfare quei parametri necessari
ad aumentare la produttività agricola dell’eurozona. Anzi: risultavano dannose.
Intanto
le statistiche e le cronache degli ultimi decenni hanno attribuito ragione alle
previsioni critiche che, già negli anni 80 mostravano segnali di sofferenza da
parte del settore agroalimentare. Eppure si è scelto di continuare ad
appiattirsi su quelle regole, sulla criminalizzazione e distruzione degli antichi germoplasmi. Secondo
l’attivista e giornalista Colin Todhunter; “Rimanendo in silenzio o dimostrando
ostinata ignoranza sulle dinamiche e le ingiustizie dell’economia politica del
cibo e dell’agricoltura, se ne approvano tacitamente le conseguenze. Cibo e
agricoltura – continua - si sono sposate con strutture di potere che hanno
creato eccedenze alimentari e aree di deficit alimentare e hanno ristrutturato
l’agricoltura indigena in tutto il mondo legandola ad un sistema internazionale
di commercio basato sulla monocoltura orientata all’esportazione”[7].
Di
fatto, si viene a determinare la circostanza secondo la quale la produzione nel
mercato internazionale viene manipolata e condotta in direzione di volatili
logiche finanziarie piuttosto che verso le effettive necessità dei popoli.
Condizione indispensabile all’operazione risulta l’indebitamento verso le
istituzioni finanziarie globali.
Di
fatto, ci si è avviati anche in Europa verso la finanziarizzazione del settore
agricolo attraverso i PAS, Programmi di Aggiustamento Strutturale, aggressivi
interventi di risanamento economico che prevedono riduzione dell’inflazione,
aumento delle esportazioni, risanamento della bilancia commerciale. Gli
strumenti indicati sono le privatizzazioni, l’aumento dei tassi,
l’alleggerimento delle leggi fiscali, l’abbassamento delle tariffe doganali,
l’eliminazione del controllo sui flussi di capitale straniero, la drastica
riduzione delle spese sociali, con una ricaduta estremamente negativa sulle
popolazioni locali e sui servizi primari costituzionalmente garantiti.
I
PAS richiedono un cambiamento delle politiche e, tradizionalmente, sono stati
caldeggiati dal FMI e da BM nei paesi in via di sviluppo in allineamento con il
Washington Consensus, un pacchetto di 10 regole ‘auree’ pensate per rimettere
in carreggiata paesi in difficoltà rispetto agli obiettivi globali.
Questi
programmi prevedono cambiamenti interni (privatizzazioni e deregolamentazioni)
ed esterni (riduzione delle barriere commerciali). Chi fallisce, viene
sottoposto a severe discipline fiscali.
Secondo
gli analisti più critici, questo equivale ad un ricatto nei confronti dei paesi
poveri che vengono, praticamente, costretti a finire nella morsa dei PAS ma poi
non hanno molte occasioni per riprendersi dalla spirale dei prestiti. Su questo
tema è intervenuta anche la sociologa Saskia Sassen, denunciando come il
sistema in atto peggiori le condizioni dei più deboli espellendoli dal mondo
produttivo e marginalizzandoli drammaticamente.
Una
delle critiche più comuni al sistema riguarda il mancato coinvolgimento dei
paesi in via di sviluppo nel PAS per cui sono stati redatti i Poverty Reduction
Strategy Papers (PRSPs). Tuttavia non sono
mancate le critiche nemmeno a questo ulteriore meccanismo, accusato di
essere ancora troppo legato agli interessi dei principali gruppi finanziari
internazionali e dei paesi prestatori[8].
Il
meccanismo è ben spiegato dal presidente
burkinabe Thomas Sankara negli anni 70[9];
si presta e si continua a prestare anche
a quei paesi che hanno problemi nella bilancia dei pagamenti privilegiando la
realizzazione di particolari progetti di sviluppo, ad esempio infrastrutture,
o, nel caso dell’agricoltura, ammodernamento indirizzato, appunto
all’ingegnerizzazione delle sementi o ai fitofarmaci di sintesi, la Rivoluzione
Verde, appunto..
Un
sistema incriminato dallo stesso Stiglitz in quanto conduce al fallimento
imprese sane e, financo, interi settori industriali.
Deleterio in particolare il nesso tra
il rimborso del debito sovrano e l’aggiustamento strutturale dell’agricoltura
regionale: per gli agricoltori si traduce in una spirale crescente di costi. I
contadini diventano dipendenti da semi e tecnologie le cui royalty appartengono
a imprese private di maggior calibro, si distrugge il principio stesso
dell’autosufficienza alimentare.
Gli stessi sussidi costituiscono una
trappola per i contadini e per gli Stati in quanto elargiti in forma di
prestito difficilmente rimborsabile. Di fatto, che il debito venga interamente
ripagato, non conviene al creditore, come non conviene che si scelga di non
pagare affatto. L’obiettivo consiste nel mantenere in una costante condizione
debitoria alcuni paesi target.
Nel
nostro Paese il decreto 24.01.2012 n.1 recante ’Disposizioni urgenti per la
concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività’ (G.U.
24.01.2012 n.19) e altrimenti conosciuto come ‘decreto liberalizzazioni’,
all’Art.66 regola la dismissione dei terreni demaniali e a vocazione agricola e
specifica: “6. Per i terreni ricadenti all'interno di aree protette (…) l'Agenzia
del demanio acquisisce preventivamente l'assenso alla vendita o alla cessione
in affitto da parte degli enti gestori delle medesime aree” e che: “9. Le
risorse derivanti dalle operazioni di dismissione di cui ai commi precedenti al
netto dei costi sostenuti dall'Agenzia del demanio per le attività svolte, sono
destinate alla riduzione del debito pubblico. Gli enti territoriali destinano
le predette risorse alla riduzione del proprio debito e, in assenza del debito
o per la parte eventualmente eccedente al Fondo per l'ammortamento dei titoli
di Stato”[10].
In
sostanza, ogni anno il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali adotta un
decreto allo scopo di individuare terreni agricoli o a vocazione agricola che
siano di proprietà dello Stato o enti e che potranno essere venduti senza bando
se il loro valore è sotto i 100mila euro. Il ricavato dovrà servire a riempire
il debito pubblico.
Elementi
già contenuti nella Legge di bilancio 12 novembre 2011 n.183, evoluzione del
Decreto Salva Italia 201/11 su ‘Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità
e il consolidamento dei beni pubblici’
Quanto
sta accadendo dimostra che oggi il patrimonio naturale e ambientale è
considerato uno spazio di speculazione, e sta decisamente perdendo la sua
connotazione di bene comune con il suo carico di conoscenze e relazioni.
Significativo
anche il DL 85/2010 il quale all’Art. 5 stabilisce che il demanio marittimo e
quelli appartenenti al demanio idrico che siano di proprietà dello Stato,
possono, però, essere venduti e chi acquisterà, potrà disporre liberamente di
coste, fiumi, laghi e sorgenti.
Si
viene, quindi, a verificare il caso pocanzi paventato: quello del nesso che si
stabilisce tra rimborso del debito sovrano e aggiustamento strutturale delle
agricolture regionali, causa di drammatiche e infinite spirali debitorie.
L’urgenza
di riprendere il controllo sulle produzioni agricole arriva da più parti così
come il nesso tra etica, diritti e mercato in tempi di forte aumento dei prezzi
delle materie prime agricole che contribuiscono al peggioramento delle condizioni
di vita delle popolazioni maggiormente vulnerabili.
In
particolare il prezzo del grano è aumentato del 95% durante la seconda metà del
2010. Si stabilisce, così un nesso inestricabile tra la crisi alimentare
mondiale e la speculazione finanziaria sui prodotti agricoli a livello mondiale.
“L’ampiezza delle variazioni dei prezzi in così breve tempo suggerisce di per
sé che tali movimenti non possono essere stati originati da movimenti dell’offerta
o della domanda – ci racconta uno studio di economia - specialmente dal momento
che nel mercato mondiale gli effetti della stagionalità, in una particolare
regione, sono controbilanciati dall’offerta nelle altre regioni. (…) Invece –
ipotizza ancora questo interessante studio – si può plausibilmente ritenere che
la speculazione finanziaria e, in particolare, le attività degli investitori
dei futures sulle materie prime non regolamentate siano state il principale
fattore soggiacente al rapido incremento dei prezzi di molte materie prime,
inclusi i prodotti agricoli negli ultimi anni”[11].
I
futures sono, praticamente, un accordo di mercato riguardante la produzione di una commodity,
che in campo agricolo è un prodotto agricolo, appunto (caffè, cotone ecc.).
Quindi si stipula un contratto in cui si concorda un prezzo di vendita riguardante una futura
produzione. Si tratta di un modo che i produttori possono utilizzare per
assicurarsi una certa stabilità futura nei guadagni. Gli intermediari
attraverso un accordo future possono acquistare dei prodotti agricoli dagli
agricoltori con consegna futura e ad un prezzo prefissato. Ciò protegge gli
agricoltori dalla fluttuazione dei prezzi che può essere dovuta, ad esempio, ad
una catastrofe ambientale. Ma gli intermediari si assumono il rischio di quanto
potrebbe accadere in cambio di una ricompensa che verrà incassata indipendentemente
dalle sollecitazioni verso l’alto o il basso cui saranno soggette le materie
prime. Il ruolo degli intermediari è fondamentale in questo ragionamento perché
possono anche speculare sui profitti. La deregolamentazione del sistema
finanziario globale ha certamente favorito questo sistema. Interessante anche
il nesso rilevato da alcuni economisti tra le oscillazioni del prezzo del
petrolio, che nella seconda metà del 2010 ha superato la soglia psicologica dei
100 dollari al barile, e il prezzo del cibo indipendentemente dall’offerta e
dalla domanda dei prodotti agricoli con ricadute negative o estremamente
negative sui coltivatori ma anche sui consumatori. Ne è esempio l’India, dove i
prezzi del cibo salgono in un contesto in cui la popolazione è,
sostanzialmente, malnutrita[12].
Esistono
dolorosi esempi che ben raccontano le conseguenze di questo sistema portato a
maturazione. La morte di 300 mila contadini indiani suicidi negli ultimi 20
anni e il muro di silenzio erto intorno ai responsabili raccontano di un’ecatombe
che poco si abbina al tema della giustizia sociale e della democrazia.
In
India 12 mila piccoli coltivatori all’anno si suicidano in seguito alla
monopolizzazione del settore cotoniero avviato da Monsanto con l’introduzione
del cotone transgenico BT nel 2002. Un vero e proprio genocidio di stampo
finanziario che non ha precedenti e il cui nesso con l’agribusiness è stato
denunciato anche nel parlamento indiano.
Il
Rapporto Acharya dal nome dell’autore Basudeb Acharya, capo del Comitato
parlamentare permanente per l'agricoltura del parlamento nazionale indiano, è
altrimenti noto con il titolo “Cultivation
of Genetically Modified Food Crops – Prospects and Effects”. Il documento fa il punto della situazione
agricola indiana dopo 4 anni di ricerca durante i quali i componenti del
Comitato hanno intervistato tutti gli stakeholders. La Commissione stabilì che l’introduzione del
cotone BT non ha beneficiato gli agricoltori: “Al contrario, essendo una
pratica di agricoltura ad alta intensità di capitale, gli investimenti che gli
agricoltori hanno dovuto sostenere sono aumentati, esponendoli, in tal modo, a
rischi molto maggiori a causa del massiccio indebitamento che la grande
maggioranza di loro non può permettersi. Come risultato, dopo l'euforia di
alcuni anni iniziali, la coltivazione del cotone Bt ha solo aggravato la
miseria dei piccoli agricoltori marginali che rappresentano oltre il 70% delle
coltivazioni in India"[14].
Osservazioni
confermate da paralleli e autorevoli studi condotti nei grandi paesi
sudamericani[15]
e africani[16]
e dimostrano la rapace follia del sistema produttivo vigente.
Un
sistema il cui tema caratterizzante è costituito dal monopolio che Monsanto
detiene rispetto alla produzione delle colture.
Gli
agricoltori sono costretti a pagare a Monsanto – dunque ad una corporazione
transnazionale privata – le royalty sulla produzione, i semi transgenici che
producono piante sterili, i pesticidi che controllano gli insetti ‘nocivi’.
Naturalmente,
essendo in presenza di un monopolio ‘corsaro’, Monsanto può decidere il prezzo
dei prodotti che vende, prodotti di cui gli agricoltori hanno sempre più
necessità. Si è riscontrato, infatti, che il cotone BT sia esposto ad un
maggior numero di insetti nocivi e malattie rispetto al normale cotone a causa
di una maggiore suscettibilità contratta rispetto agli insetti succhiatori.
E’
quindi possibile affermare che le promesse propagandate dalla Rivoluzione Verde
non siano state mantenute, i guadagni siano stati realizzati solo da Monsanto e
le conseguenze di un approccio neoliberale all’agricoltura abbiano avuto
ricadute economiche dirette (contadini) e indirette (aiuti statali) che hanno
peggiorato sia le condizioni di vita e salute degli agricoltori e delle loro
famiglie, sia quelle dello Stato, in una spirale crescente di continui esborsi.
E’
ormai evidente che i mercati internazionali delle materie prime assumono sempre
più le caratteristiche di mercati finanziari e sono pertanto soggetti ad
asimmetrie informative e alle relative tendenze a essere diretti da un piccolo
gruppo di grandi giocatori[17].
Secondo
il governo indiano esiste un rapporto inversamente proporzionale tra i profitti
di Monsanto e i crescenti debiti contratti dai contadini. Si calcola che il 75%
del debito agrario sia da imputare al valore sempre maggiore degli acquisti cui
i contadini sono costretti[18].
Come
si cade in questa trappola? Il meccanismo viene disarticolato dalla Prof.ssa
Shiva la quale punta l’indice contro le strutture finanziarie sovranazionali e
afferma:
“L’ingresso di Monsanto nel settore dei semi
indiano è stato reso possibile da una Politica sui Semi risalente al 1988
imposta dalla Banca Mondiale, che richiedeva al governo indiano di
deregolamentare il settore dei semi. Cinque cose sono cambiate con l’ingresso
di Monsanto: Primo, le compagnie indiane sono state inserite in accordi di
joint ventures e licence (…). Secondo, i semi che erano stati la comune risorsa
dei coltivatori, sono diventati ‘proprietà intellettuale’ di Monsanto che ha
iniziato a collezionare royalty aumentando, tra l’altro, il costo dei semi.
Terzo: i normali semi di cotone impollinati, furono sostituiti da ibridi,
compresi gli ibridi OGM. Una risorsa rinnovabile è diventata un articolo brevettato
non rinnovabile. Quarto, il cotone che precedentemente veniva coltivato insieme
a coltivazioni destinate all’alimentazione, ora cresce in forma di monocoltura,
determinando una maggiore vulnerabilità agli insetti nocivi, alle malattie,
alla siccità e al fallimento delle coltivazioni. Quinto, Monsanto ha iniziato a
sovvertire il processo regolatorio indiano iniziando ad usare risorse pubbliche
allo scopo di spingere nella cosiddetta partnership pubblico/privato (PPP) i
suoi semi OGM ibridi non rinnovabili”[19].
Fatti
che, come si diceva, sollevano questioni di giustizia sociale ma anche di
sovranità.
Eppure l’alternativa esiste, è
l’agroecologia. I paesi che hanno scelto di abbracciare questa tipologia produttiva
hanno visto in breve dei miglioramenti che ricadono in tutta la catena
produttiva, i benefici: autosufficienza, localizzazione, sovranità alimentare,
ambiente salubre,
maggiore
resilienza al clima, creazione di posti di lavoro, maggiori rendimenti per gli
agricoltori, migliore qualità del suolo[20].
[1]
Forum Mondiale sulla Sovranità
Alimentare, Villaggio di Nyéléni, Mali, 23-27 Febbraio 2007. Il tema della
Sovranità alimentare è stato posto nel 1996 a Roma dalla Via Campesina,
organizzazione rurale molto attiva in Brasile. http://www.nyeleni.org/
[3] https://www.freedompress.it/attacco-vandana-shiva-european-consumers-solidarieta-la-scienziata-svela-le-trappole-della-royalty-semi-monsanto/
[4] CONSEA, Conselho
Nacional de Segurança Alimentar e Nutricional, “Relatório Final. Mesa de
Controvérsias sobre Transgênicos”, Brasília, Presidência da República, 2014.
[6] Morea Leonardo, ‘Le colture
mediterranee nella prospettiva europea del 1992’, pg. 33, Cacucci editore, Bari 1990
[7] Colin Todhunter,
https://www.globalresearch.ca/approaching-development-gmo-propaganda-neoliberalism-localisation-agroecology/5660332?utm_campaign=magnet&utm_source=article_page&utm_medium=related_articles
[8] https://gsdrc.org/document-library/reducing-poverty-or-repeating-mistakes-a-civil-society-critique-of-poverty-reduction-strategy-papers/
Tra
i paesi prestatori di FMI e BM spiccano nell’ordine Regno Unito, Stati Uniti,
Giappone, Canada. Questi paesi intervengono nei progetti attraverso un sistema
di voti proporzionale all’importanza finanziaria del Paese.
[11] [11] Jayati
Ghosh, “Implicazioni della regolazione dei mercati dei derivati sulle materie
prime negli USA e nell’Unione Europea”, in: Moneta e Credito, vol. 64 n.256
(2011), 297-318
[12] Jayati Ghosh, “Implicazioni della
regolazione dei mercati dei derivati sulle materie prime negli USA e
nell’Unione Europea”, in: Moneta e Credito, vol. 64 n.256 (2011), 297-318
[17] Jayati Ghosh, “Implicazioni della
regolazione dei mercati dei derivati sulle materie prime negli USA e
nell’Unione Europea”, in: Moneta e Credito, vol. 64 n.256 (2011), 297-318
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