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lunedì 5 agosto 2019

La Nuova Via della Seta. Tra sicurezza nazionale, know how e infrastrutture.




Di Chiara Madaro

Un celebre aforisma attribuito a Confucio recita: ”Non importa se ti muovi piano, l’importante è che non ti fermi”. Sembra essere stato il mantra dei cinesi nell’ultimo lustro. Neanche tanto lentamente ma inesorabilmente, la Cina ha saputo allontanarsi dal tradizionale isolazionismo sfruttando le molteplici opportunità che scaturivano dagli eventi storici caratterizzanti i paesi dell’area comunista.  Nel ’95 la Cina copriva il 7% del PIL mondiale pur avendo il 20% della popolazione mondiale. Oggi si registra un 18% e, per le terre del Grande Drago, il futuro si prospetta ancora più radioso.
Il primo ventennio del nuovo millennio si sta per concludere con l’annuncio e la realizzazione di un grande progetto che la Cina cova dal 1992, all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica, e in un momento in cui contava davvero molto poco. E’ la Nuova Via della Seta, un progetto infrastrutturale di vaste proporzioni che si ripropone di collegare la Cina al resto del continente spingendosi fino all’Africa. Un grande continente eurasiatico connesso via terra e via mare. Sebbene la versione cinese si riferisca a due sole direttrici principali – una continentale attraverso l’Asia centrale e il Medio Oriente, e una marittima che collega il Mediterraneo all’Oceano Indiano – in realtà, secondo Stratfor Intelligence, sono previsti almeno sei corridoi di intermodalità, che abbinano mare e terra: la Transiberiana e i corridoi attraverso Kazakhstan, Iran, Turchia, Pakistan, oltre che quelli per Indocina, Bangladesh, India e Myanmar. Ingenti le risorse finanziarie veicolate attraverso il Silk Road Fund (40 miliardi di dollari) e la Asian Infrastructure Investment Bank (100 miliardi di dollari), entrambe iniziative cinesi destinate a finanziare gli investimenti per realizzare BRI, Belt and Road Initiative[1]. L’obiettivo cinese consiste nell’irrobustire le linee di comunicazione con il resto d’Europa allo scopo di accedere con maggior sicurezza alle fonti di approvvigionamento energetico di cui il Celeste Impero ha sempre più fame.
Una fame controllata dagli Stati Uniti, avversario nella contesa per il dominio globale. Al momento, infatti, la Cina importa gas e petrolio attraverso lo Stretto di Malacca caratterizzato dalla presenza militare statunitense sull’Isola Diego Garcia. L’obiettivo è, quindi, sganciarsi da questo controllo aprendo nuove rotte. Strategico è il corridoio marittimo col Pakistan, ad esempio, dove è già stato ideato un grandioso progetto per il porto di Gwadar. Importante anche l’Asia Centrale, perfetta come sfogo della sovrapproduzione cinese nei settori dell’acciaio e minerario, a causa della scarsa produttività che attualmente penalizza l’area e la Russia, con cui sono stati avviati accordi di libero scambio limitati, a causa di sistemi produttivi simili[2].
Eurasia torna, dunque, nello scacchiere geopolitico internazionale con il suo carico di storia e si riprende il proprio posto nel mondo.
Un mondo che nel frattempo ha cambiato le regole del gioco. La Pax Americana su cui ancora si regge l’Occidente, si sostanzia nella dottrina della guerra perpetua, nella sottomissione della sovranità anche militare di alcuni paesi, tra cui il nostro, rispetto agli Stati Uniti. L’Occidente, avvezzo a condurre la partita, ha trascurato a lungo di preoccuparsi di cosa si muovesse in questi colossi dalla cultura enigmatica che hanno fatto un vantaggio della propria diversità.
Parallelamente, la voglia che alcuni avvertono di cambiare segno, di spezzare i vincoli altrimenti indissolubili nell’attuale sistema di relazioni geopolitiche, la considerazione secondo cui siamo, ormai, al giro di boa nelle relazioni egemoniche, l’apparente aura pacifica e non aggressiva del gigante rosso-oro, la rassicurante retorica di relazioni ‘win-win’, la promessa di un Nuovo Ordine Economico basato su relazioni tra pari, non deve, tuttavia, distoglierci da una visione realistica, consapevole e profonda di cosa sia la Cina e degli impatti sul nostro sistema economico e politico[3].  
E’ d’uopo riconoscere la superiorità cinese che, prevedibilmente, proseguirà inesorabile nella sua sete di espansione. In poco tempo ha superato USA e area Euro, è il primo esportatore mondiale con il 13% di export (l’Italia occupa l’ottavo posto al mondo) ed è creditore verso gli USA cioè compra titoli di Stato USA. Gli investimenti cinesi nella BRI sono di gran lunga superiori agli sforzi europei. La Cina ha stipulato accordi commerciali per un valore di 390 miliardi di dollari con i paesi che partecipano a BRI nei primi quattro mesi del 2018 per una crescita del 19,2% su base annua.
La valuta cinese è, ormai, utilizzabile per gli scambi commerciali internazionali (è al 5°-7° posto tra le valute maggiormente utilizzate) ed è facile credere che stia pensando a dove e come investire il proprio surplus.
Da un punto di vista cinese, scegliere se esserci o meno in questo processo di cambiamento e in quale veste, è un problema dei paesi occidentali: il meccanismo si è già avviato e sta lasciando gli Stati Uniti ai margini. Secondo l’IBC Standard Bank al 2013 sono stati completati o definiti 1100 progetti per un valore complessivo di 750 miliardi di dollari:


In questo l’Italia ha da offrire porti e linee di comunicazione antiche, naturali. A causa della posizione che occupiamo nel Mediterraneo, siamo considerati il ‘grande molo d’Europa’ e 4 corridoi europei in realizzazione interessano l’Italia, mentre dei 17 mila chilomentri di rete 5500 fanno parte della cor-merci europea: corridoio baltico, scandinavia-mediterraneo, mediterraneo e reno-alpi.
L’impegno italiano si misura con 72 miliardi di euro 21 miliardi dati e 6,5 miliardi attribuiti con le risorse della legge di stabilità.
Anche in un passato recente siamo stati il primo paese occidentale ad avviare relazioni diplomatiche con la Cina dopo la terribile pagina di Tien Anmen. Per la Cina, l’Italia è un interlocutore affidabile ma da cui non doversi difendere a causa del ruolo non aggressivo che occupa nella comunità internazionale, e nel 2017 il nostro export è cresciuto del 25% in area Euro. Ma per non soccombere dobbiamo essere preparati ad affrontare questo nuovo, inevitabile percorso dove le regole del gioco già non le imponiamo più noi. La Cina ha, infatti, osservato le regole del FMI e di BM superandole con un sistema di crediti pensato per prendere in ostaggio i Paesi che beneficiano di importanti investimenti: chi non riesce a ripagare il debito entro un tempo stabilito, viene defraudato dei porti, delle sfere commerciali, di ogni attività capace di produrre profitto. E’ il motivo per cui la proposta cinese di investire 350 miliardi in oleodotti e gasdotti che colleghino al nostro paese idrocarburi provenienti dall’area MENA, lasciano dubitabondi a causa della necessità di tutelare interessi strategici nazionali.
Già la Russia ha perso importanti aree di interesse rientrate, quindi, nella sfera cinese: Uzbekistan, Siberia e moltissimi altri tra i 60 Paesi che si trovano sui percorsi segnati dalla Nuova Via della Seta mentre la Cina ha realizzato investimenti importantissimi nei deprivati Paesi dell’Est Europa, che difficilmente potranno essere ripagati. Questo è un punto cruciale che ci invita a ripensare concretamente e con coscienza del momento storico, al nostro sistema produttivo e alla necessità/impellenza di proteggerlo. La posizione geostrategica dell’Italia nel Mediterraneo non può non attrarre chi ha mire espansionistiche di qualche tipo nel continente eurasiatico. Questo ci impone di porre attenzione alle politiche interne mutando totalmente paradigma rispetto agli obiettivi a corto raggio, addirittura trimestrali, favoriti negli anni della crisi. E’ stringente adoperare, invece, sistemi politici e produttivi lungimiranti, un’economia basata sulla produttività e sulla protezione del know-how italiano piuttosto che sulla finanziarizzazione e sulla regalia di saperi produttivi che ci rendono unici al mondo, a chi ha già mostrato di riuscire sapientemente ad attingere al nostro patrimonio culturale, storico, artigianale, tecnologico riproducendolo con un margine qualitativo sempre maggiore.
L’ambasciatore cinese Li Luiyu ha tenuto a rimarcare come l’Italia sia stata vissuta a lungo come un interlocutore incerto a causa dell’assenza di un serio dibattito politico nazionale riguardo al tipo di relazioni da intrecciare con la Cina e all’opportunità di mettere in rete le infrastrutture del paese in ottica BRI. Le relazioni cinesi sono state mantenute in piedi nel nostro Paese soprattutto grazie all’interessamento e agli sforzi delle realtà locali. Una disattenzione che non possiamo permetterci se non intendiamo disperdere senza rimedio ogni nostra risorsa ed essere travolti dall’iniziativa rosso-oro.
Ad esempio sta a noi decidere non già ‘se’ ma ‘in che modo’ consentire alla Cina di penetrare nel nostro tessuto economico e logistico. Vissuta come hub portuale naturale, in grado di collegare dall’Oriente al resto del Continente volumi crescenti di merci, l’Italia è già coinvolta con i porti di Trieste, Genova e Venezia. Rimangono totalmente esclusi i porti del Meridione italiano. Il coinvolgimento del porto di Taranto, sarebbe, invece, da alcuni analisti da tenere in maggior considerazione allo scopo di proteggere il vulnerabile e già ferito sistema ecologico dell’Adriatico da un prevedibile crescente transito di mega navi da carico dirette verso il nord del Paese, appunto. Di grande importanza il tema ambientale per un colosso che è in paziente ma famelica attesa di prendersi i suoi spazi senza andare troppo per il sottile. Ad oggi, d’altra parte, la Cina, come ogni altro Paese BRIC, non ha dovuto sottostare al sistema di sanzioni ambientali pensato dagli accordi stretti in seno al Protocollo di Kyoto. Con l’obiettivo di permettere ai Paesi in difficoltà di crescere, è stato loro concesso di inquinare di più. Un sistema controverso e molto criticato che ha contribuito a divulgare un’immagine di progresso distorta ed estremamente lacunosa. La conseguenza è quella che vediamo rappresentata nel grafico in basso che racconta di ingenti investimenti nel campo delle energie non rinnovabili. 



Una scelta che, oltre ad avere evidenti e negative ricadute in campo ambientale, ha già un impatto nella sfera geopolitica. La Cina, ha, infatti, allargato i propri orizzonti rispetto al tema della difesa andando oltre i propri confini e spingendosi nel Mediterraneo dove detiene forti interessi nell’approvvigionamento di idrocarburi e dove, agli inizi del settembre 2018, ha svolto esercitazioni congiunte con la Russia al largo della Siria, dove gli Stati Uniti sono stanziati militarmente a protezione dei giacimenti petroliferi nelle alture del Golan.
Scelte che non è possibile rimandare ulteriormente se si pensa che la Cina solo nel 2016 ha investito 20 miliardi di dollari nei porti stranieri allo scopo di renderli maggiormente ricettivi rispetto alle proprie necessità. Il doppio rispetto alle cifre messe in campo nel 2015. Il risultato di queste politiche è  la partecipazione del Grande Drago nella gestione di ben 80 porti in tutto il mondo. Sul fronte del Mediterraneo il numero delle navi porta container è cresciuto del 20% in 5 anni. Solo nel Canale di Suez il traffico navale è aumentato del 125% dal 2001 al 2015 segnando un evidente attivismo commerciale in area MENA, Middle East and North Africa. Tuttavia il surriscaldamento globale potrebbe spingere i cinesi a tentare una ‘via polare’ a scapito della rotta mediterranea. Una grande perdita che ci invita a spostare il baricentro delle azioni politiche nazionali ed europee e pensare, appunto, in ottica eurasiatica a come mettere in rete competenze e risorse rideterminando il senso delle collaborazioni, i pesi e contrappesi all’interno dell’area europea occidentale. La Cina, ad esempio, ha mostrato interesse per i porti del Pireo. Un fatto che non dovremmo vivere con spirito concorrenziale in quanto l’Italia ha acquistato le ferrovie greche, dunque, buona parte della merce che giunga nel Pireo, dovrà, poi essere trasportata sfruttando, attraverso le necessarie interconnessioni, questa ulteriore infrastruttura.
Notevoli le competenze e le aziende in campo nel settore terra-ferro della Holding FS Italiane:


FS Italiane è già attiva in  60 Paesi nei cinque continenti, dove genera ricavi per oltre un miliardo di euro e intende proporsi come General Contractor in paesi dove persistono gravi gap infrastrutturali. Tra le 200 linee ferroviarie esistenti al mondo, infatti, solo 7 dispongono di Alta Velocità, necessaria nelle zone interne e che non hanno sbocchi sul mare, ai fini del mantenimento della qualità dei prodotti esportati. Una importante occasione per l’esportazione del Made in Italy ma anche per affermare il know how italiano quanto a sicurezza, manutenzione, realizzazione di reti nella mobilità integrata (ferro/gomma, ad esempio), nella digitalizzazione del sistema, nella intermodalità con porti ed aeroporti. Importanti luoghi di espansione sono il Medio Oriente, l’India e il Sud Est Asiatico, l’Africa.[4]
Molti passi sono stati compiuti, abbiamo compreso l’importanza di fare rete e sistema, stiamo imparando a intrattenere relazioni con una società dalle sfaccettature complesse e inattese, e con la AIIB, Asian Infrastructures Investment Bank, grazie alla presenza di un funzionario del Ministero dell’Economia e delle Finanze di stanza a Pechino, caso unico nelle relazioni diplomatiche italiane, che da la misura dell’eccezionalità del momento storico[5]. La AIIB, infatti, si propone di stabilire il credito agli investitori solo sulla base di meriti economici e senza condizionamenti di tipo politico[6]. Da un punto di vista unicamente mercantilistico, potrebbe apparire un elemento positivo ma allargando lo sguardo secondo un approccio sistemico agli eventi che si dipanano in questi anni, appaiono alcuni elementi di criticità.  Ancora una volta è bene rammentare la necessità di avere una buona conoscenza dell’interlocutore ma anche di quanto si è sviluppato in Europa dalla disfatta del comunismo e dalla caduta del muro di Berlino in poi in modo da non doversi trovare ad affrontare un male incurabile a breve. Come quello del crimine organizzato e della sua capacità di insediarsi ovunque sia possibile produrre profitto nel tessuto commerciale, finanziario, produttivo e amministrativo. E in questo proprio chi è in prima linea rispetto a tali temi, non manca di evidenziare le carenze dei paesi europei i quali tendono a non riconoscere il problema nemmeno quando si verificano fenomeni di chiaro stampo mafioso (si veda la strage di Duisburg). Dalle catene alberghiere alle agenzie di credito, dal settore energetico a quello immobiliare, il crimine organizzato ha dato prova di capacità eclettica e di saper anticipare i tempi come nessun altro. La capacità mafiosa di approfittare della domanda di capitali e delle gravi carenze nelle ancora fragili strutture democratiche dell’Est Europa, compresa Berlino, era arrivata al punto che lo stesso Dipartimento di Stato americano già negli anni 90 parlava di come i paesi del blocco comunista fossero passati dall’Internazionale Socialista alla Internazionale del crimine, capace di riciclare denaro sporco attraverso l’acquisto di acciaierie, industrie chimiche, banche[7]. In questa storia l’Europa deve recuperare molto terreno e tempo perso. Sonia Alfano, presidente della Commissione Speciale Antimafia Europea CRIM, svolge su questo punto un ruolo importante allo scopo di far comprendere che le leggi ordinarie non sono sufficienti ad affrontare un crimine organizzato che trae profitto dalle crisi inducendo, addirittura, al fallimento tantissime attività con lo scopo di rilevarle al minor prezzo possibile, come ben rappresentato dalla Relazione Violante, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia negli anni 90. Parallelamente si calcola che il 90% delle democrazie europee si siano avviate verso il declino dopo la caduta del muro di Berlino. E’ su questo sfondo che stiamo avviando rapporti economici e, lo si voglia o meno, politici, con un paese che si fida poco del sistema democratico occidentale e che, a sua volta, non gode di fiducia a causa di un sistema politico opaco che tende a tingersi di nero a causa delle ripetute e gravi lesioni dei diritti umani e che è governato da una ristretta oligarchia tesa a dirottare la politica in base alle proprie necessità a scapito della volontà popolare e dei più basilari diritti civili.
Terreno sdrucciolevole e inedito, dunque, su cui non è possibile fermarsi, certo, ma dove è necessario procedere con cautela e competenza anche allo scopo di proteggere la sicurezza nazionale.




[4] https://www.fsitaliane.it/content/fsitaliane/it/il-gruppo-fs/internazionalizzazione.html
[5] Ettore Sequi, ‘La Via della Seta ed i Porti Italiani’, in: https://www.agi.it
[6] globalresearch.ca, intervista Zivadin Jovanovic (Forum Belgrado per un Mondo di Eguali e Belgrade e  Centro di Ricerca sulla Connettività della Silk Road alla vigilia del summit dei BRICS (Xiamen, 3-5 settembre 2017)
[7] Biagio Simonetta, ‘I padroni della crisi’, pg 21, Il Saggiatore, Milano 2013

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